Andrà tutto bene?

I contagi sono ripresi esponenzialmente, le terapie intensive iniziano a riempirsi e a saturarsi, il personale sanitario viene richiamato nei reparti Covid, parziali chiusure cittadine e regionali sono già state applicate, si ventila l’ipotesi di nuovi lockdown.

Non ho mai scritto nulla di personale da quando è arrivato il maledetto coronavirus a sconvolgere la nostra normalità, lo faccio ora, e questo inevitabilmente sarà un post fiume. Se non avete tempo adesso, lasciatelo aperto su una scheda del browser e rimandatelo a quando avrete dieci minuti liberi, ci tengo molto.

 

Era il giorno x di lockdown, distanziamento sociale e scuole chiuse. Non contavo i giorni esatti di reclusione domestica perché mai come in quel periodo il concetto di tempo mi è sembrato relativo. C’è un ricordo di mio nonno che mi ha sempre fatto sorridere, ma quel giorno invece l’ho letto sotto una nuova luce. Quando ero piccola fu ricoverato in ospedale per l’asportazione dello stomaco compromesso da un tumore. Il ricovero durò molto, però lui per quantificarlo non contava i giorni, contava i pasti cucinati da mia nonna che aveva perso. Ecco, se avessi dovuto quantificare il tempo della quarantena, da quel giorno lo avrei fatto sommando le occasioni perdute. Quante splendide giornate di sole lontano dai parchi e dalla spiaggia. I pranzi in famiglia. Le serate con gli amici.

Non è stato tempo sospeso nel nostro caso, ma tempo frenetico, impazzito, in cui non bastavano paradossalmente le ventiquattro ore per riuscire in tutto.

 

Si chiama smart working, ma nessuno che possa definirsi intelligente in realtà può aver partorito la norma che sanciva “se i genitori possono lavorare in smart working, i figli devono restare a casa con loro”.

Così siamo rimasti incastrati due mesi nel nostro appartamento, due lavori da gestire in hard working, e due figli piccoli da intrattenere. Le regole di casa sono state riscritte, la televisione è purtroppo entrata di prepotenza nella nostra routine, la voce si è alzata troppo e troppo spesso, le gerarchie hanno retto a fatica. L’assenza prolungata di esposizione al sole ha regalato ai miei figli irritazioni cutanee. L’assenza prolungata di interazioni sociali con i coetanei, li ha frustrati oltre ogni mia capacità di descrizione. La mancanza delle figure autorevoli degli insegnanti li ha portati a mettere in discussione anche la nostra autorità. Alla fine di una giornata particolarmente difficile ho preso Adele da parte per parlare e le ho chiesto perché fosse sempre così arrabbiata. “Mamma, mi manca la scuola, mi mancano i miei amici e le maestre”.

 

Di solito non sono una persona che si lamenta quando parlo con qualcuno che non sia mio marito (santo marito) o qualcuno di molto vicino. Penso sempre che potrei in realtà creare disagio nel mio interlocutore perché potrebbe avere un problema più serio del mio. Per quanto possa sembrarci insormontabile la nostra battaglia, c’è sempre chi ne sta combattendo una più dura. E quindi anche in quei momenti cercavo di essere grata per ciò che avevamo, invece che per ciò che mancava. Certo, lo smart working era difficile con i bimbi, ma almeno avevamo ancora il lavoro. Certo, stare lontano dai nostri cari era difficile, ma almeno tutti erano in salute, tutti erano ancora vivi. Ogni sera prima di addormentarmi ringraziavo per questo. Certo, era difficile sapere che mio papà stava trascorrendo la quarantena completamente solo, ma almeno con le videochiamate poteva vedere tutti i giorni i suoi nipotini, compresa la piccola appena nata. E mai come in quei mesi sono stata contenta di vivere in Italia, perché per quanto imperfetto e pieno di lacune, il nostro sistema sanitario non ha abbandonato nessuno, e la politica, dovendo scegliere tra economia e sanità, per una volta si è schierata dalla parte dei più deboli. Non mi sarei mai voluta trovare al posto di Governo e Amministratori e obiettivamente sul momento non credo avrei o avremmo potuto reagire meglio di come è stato fatto. Non vale criticare ora, perchè abbiamo la conoscenza di ciò che è già stato, in quei momenti di contingenza nessuno sapeva a cosa stavamo andando incontro.

 

Però c’era un tarlo che mi rodeva dentro, una sensazione sicuramente amplificata dal nostro personale vissuto, ma in realtà condivisa con tantissime persone con cui mi sono confrontata. I bambini erano stati dimenticati. Nessuno spiraglio di riapertura delle scuole, delle attività sportive, nessuna possibilità di portarli al parco, nemmeno in un parchetto deserto di periferia come quello sotto casa nostra. L’unica volta che li abbiamo portati fuori ci siamo scontrati con la totale mancanza di empatia dei vicini, in un episodio che difficilmente potrò dimenticare, e quindi abbiamo evitato da quel momento in poi qualunque comportamento borderline. Doveva essere il momento della solidarietà, e purtroppo per lo più intorno a me ho visto emergere i peggiori istinti guerrafondai, a partire dalla caccia ai runner solitari. Non credo che lo stigma ai runner, a chi si allontanava con il cane qualche metro più del dovuto, a chi ha continuato a portare i figli al parco, fosse l’espressione di un’improvvisa ondata di senso civico e giustizia sociale, credo più fosse volontà di ferire l’altro per l’incapacità di affrontare e sopportare la propria condizione, senza nemmeno porsi domande sul perché del comportamento altrui ma demonizzandolo a prescindere. Ho condiviso pochissimo sui social in quel periodo, benchè li frequentassi lo stesso assiduamente per lavoro. Perchè in quei particolari momenti le nostre reazioni erano amplificate all’ennesima potenza. Quello che prima ci avrebbe appena infastidito, in lockdown ci scatenava una rabbia cieca, allo stesso modo di ciò che in quel momento ci faceva commuovere visceralmente quando prima ci avrebbe forse solo strappato un sorriso. Quindi ho tenuto per noi le fatiche della reclusione, pubblicando solo ogni tanto spezzoni di vita domestica come faccio di solito: qualche progetto creativo con i bimbi, per i quali cercavo sempre di ricavarmi tempo perchè per loro è qualitativamente superiore, un’infornata di biscotti, una creazione alla macchina da cucire. Ma avrei voluto solo gridare a gran voce: pensate ai bambini! Li avete dimenticati!

 

Appena è stato possibile, il primo giorno di apertura degli stabilimenti balneari, ci siamo catapultati in spiaggia. 

La ripresa, seppur in piccolo, della socialità con i coetanei per i miei figli è stata un toccasana. Il nostro abituale stabilimento è frequentato in prevalenza da famiglie che vivono qui nel territorio, e che hanno bambini della stessa fascia d’età dei nostri. Per tacito accordo, sin dal primo momento abbiamo lasciato che i bambini giocassero insieme, sapendo che, avendo solo contatti con persone conosciute, qualora si fosse manifestato un contagio, saremmo tutti stati avvisati immediatamente.

Il suono delle loro risate la prima volta che hanno giocato assieme agli amici non lo scorderò mai.

Siamo stati al mare ogni volta che si poteva, e all’aperto sempre, sfidando a volte anche le previsioni meteo, fino a quando davvero solo la pioggia non ci obbligava a rientrare. Abbiamo vissuto intensamente l’estate, senza fare nulla di particolare, senza andare in vacanza, ma con la gioia di godere ogni secondo della pausa che il Covid ci stava dando.

 

E poi finalmente le scuole hanno riaperto le loro porte. Con tutte le misure di sicurezza necessarie, in una modalità sacrificata rispetto all’ordinario, ma finalmente aperte. Ho visto i miei figli rifiorire. La rabbia accumulata nei mesi di lockdown evaporare. Siamo tornati all’abitudine di raccontarci a cena le reciproche giornate, e a ritrovare ognuno di noi la nostra individualità, che poi ci arricchisce tutti e quattro come famiglia.

 

Non posso pensare ad una nuova chiusura prolungata della scuola. Ritengo che quello che deve essere salvato assolutamente, ovviamente do per scontato che la prima cosa sia la salute di tutti, in particolare di chi è più fragile, sia la didattica in presenza. Un Paese che trascura l’istruzione e la formazione è un Paese destinato ad arretrare inesorabilmente. Cultura, non intesa solo come istruzione, ma come cultura sociale dell’altro e del vivere insieme. La didattica a distanza non funziona per tutti, non è democratica, e se può essere efficace sul piano dell’apprendimento, sul piano sociale è un buco nero. Scuola non è solo italiano, matematica, storia e geografia. Scuola è imparare la relazione con gli altri, le regole sociali, le differenze. Scuola è crescita personale nel rapporto con i coetanei e con gli insegnanti. Per questo mai mi sognerei di scegliere l’istruzione parentale.

 

Davvero c’è chi ancora nega l’esistenza o la drammaticità del coronavirus? Davvero la quarantena non ha insegnato nulla?

 

A noi, sicuramente a dare ancora più importanza alle relazioni, a tenerci stretti gli affetti, a non darci mai per scontati e a riconsiderare l’utilizzo del nostro tempo libero. A trascorrerlo quanto più possibile all’aria aperta e a non buttarlo mai. 

E, benché quando abbiamo deciso di mettere al mondo dei figli avessimo ben chiaro l’impegno preciso assunto nei loro confronti, mai come in questo anno ho capito che il regalo più grande che posso fare loro è la maggior tranquillità possibile, non importa se a mio discapito, perchè se loro non stanno bene, non posso stare bene io. In un eventuale futuro lockdown prenderò provvedimenti molto diversi.

La quarantena ci ha insegnato che la vita che abbiamo costruito può venire meno senza nessun preavviso, e per questo non dobbiamo sprecarla facendo qualcosa che non ci rende davvero felici.

 

Andrà tutto bene? Non lo so. Mi spaventa questa incertezza? Moltissimo. Ma quest’estate abbiamo avuto una pausa felice, che ci ha permesso di recuperare le energie e fare il pieno per l’inverno. E abbiamo la consapevolezza di cosa possiamo fare per rallentare i contagi e per mantenere il più a lungo possibile la didattica in presenza. Per favore, per favore, per favore, permettete ai ragazzi di andare a scuola, adottando tutte le misure che la scienza al momento suggerisce. Mascherine, distanziamento e compagnia. Perchè se la scuola chiuderà di nuovo la risposta alla domanda andrà tutto bene? è una sola, NO.

 

Grazie per avermi letto. Un grazie immenso se continuerete ad adottare le misure di protezione collettiva, e se proverete a sensibilizzare chi ancora al momento se ne frega degli altri. I nostri sacrifici di oggi servono ai ragazzi, per costruire la comunità di domani.

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